“Non sopporto questi cibi orientali che sono entrati nelle nostre abitudini”.
Disse una signora sorseggiando un caffè macchiato con latte di cocco. Anche un po’ di zucchero, grazie. Ma di canna!
“Non ci rendiamo conto”, diceva la signora, “che il miso ad esempio viene dal Giappone. Fa tanti km per giungere fino a noi. E poi le alghe! Perché mangiare alimenti che non fanno parte della “nostra” cultura?!?”
Concluse afferrando una banana.
“Perché a me piace la frutta di stagione”.
A volte ci sono stereotipi e condizionamenti che ci portano ad avere una visione parziale della realtà.
Consideriamo “esotico” un cibo solo perché viene da un’altra cultura e poi consumiamo quotidianamente cibi che di fatto della “nostra” cultura non fanno parte. E non sono neppure sostenibili, visto che vengono (realmente) da lontano.
Parliamo di sostenibilità senza renderci conto che questa nasce da un processo di consapevolezza.
Quella consapevolezza che fa sì che ci interroghiamo sulla provenienza del cibo che consumiamo quotidianamente.
Quella consapevolezza che mi porti ad “essere consapevole” di come questo cibo sia coltivato e (spesso) “trasformato”.
Oggigiorno mangiamo e beviamo cibi tropicali pensando che siano coltivati localmente. Senza oltretutto renderci conto che dietro alla loro produzione si nascondono storie di sofferenza e di sfruttamento.
E poi non consideriamo che la cultura è anche evoluzione.
Nel caso ad esempio di prodotti che vengono dalla tradizione del Giappone (uno dei popoli più longevi) è di fatto una forma di evoluzione verso un cibo che ci crei trasformazione e ci fornisca salute.
Specie nella condizione in cui ci ha portato l’industria oggi: e il nostro intestino ne sa qualcosa. Chiediamoci anche se le merendine industriali fanno parte della nostra tradizione…
Oltretutto, riflettiamo: se l’essere umano non si fosse evoluto, avrebbe continuato a mangiare cibo crudo. Ma ha scoperto il fuoco ed è stata la cottura a segnare la sua crescita, anche intellettuale.
Se fossimo rimasti al cibo di migliaia di anni fa, oggigiorno non mangeremmo neppure i fagioli, che sono stati introdotti a seguito della scoperta dell’America.
Pochi ricordano un piatto antichissimo, nato come “street food” per le vie di Napoli, che è proprio a base di alghe (che poi sono semplicemente verdure… Verdure di mare). Si tratta delle zeppole di mare, un impasto di farina con aggiunta di lattuga di mare. E poi fritto. Un piatto povero, preparato con quello che si riusciva a trovare in zona. Perché allora non c’erano gli aerei che ci potessero portare cibi “esotici”. E non c’erano allevamenti intensivi che ci potessero dare la possibilità di consumare carne Tutti i giorni.
Quegli allevamenti intensivi che sono la prima causa di inquinamento atmosferico. Eppure c’è ancora chi, tra una bistecca e l’altra, si lamenta che l’aria è inquinata…
Ecco che la “nostra” cultura è un concetto relativo. Visto che non vi appartengono neppure i pomodori, o altre solanacee, che abbiamo cominciato a mangiare nel XIX secolo circa.
Abbiamo la possibilità di scegliere e di evolverci utilizzando tecniche che ci possono aiutare a stare meglio. Con ingredienti come il miso, per l’appunto, che tra l’altro viene prodotto anche in Italia. Perché anche noi italiani possiamo apprendere ed usare la tecnica della fermentazione. Del resto, come si diceva, la cucina è anche evoluzione.
Sostenibilità e salute possono procedere di pari passo.
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